Il principe ordinò a Benvolio, che era stato testimone della zuffa, di riferirne l’origine, cosa che egli fece mantenendosi il più possibile aderente alla realtà dei fatti senza danneggiare Romeo, e cercando di attenuare e giustificare la parte che avevano avuto i suoi amici. Ma Madama Capuleti, il cui dolore per la perdita di Tibaldo la spingeva a cercare vendetta a tutti i costi, esortò il principe a far valere la legge contro l’assassino con estrema durezza, senza badare al racconto di Benvolio il quale, essendo amico di Romeo e un Montecchi in aggiunta, era certamente parziale. Così, senza saperlo, si accaniva contro il proprio genero, ignorando che Romeo era il marito di Giulietta. D’altra parte Madama Montecchi perorava la causa di suo figlio, argomentando non senza ragione che, nell’uccidere Tibaldo, Romeo non aveva fatto nulla che meritasse una dura punizione; infatti il destino di Tibaldo sarebbe stato segnato dalla legge in quanto assassino di Mercuzio. Il principe rimase impassibile ai discorsi appassionati delle donne e, dopo aver attentamente esaminato i fatti, pronunciò la sua sentenza secondo la quale Romeo doveva essere bandito da Verona.
Era un annuncio assai tragico per la giovane Giulietta, sposa da poche ore e subito separata, forse per sempre, dal suo innamorato a causa di questo decreto.
Appena le giunse la notizia ebbe un primo moto di rabbia contro Romeo che aveva ucciso il suo caro cugino. Lo definì un affascinante tiranno, un angelico demonio, una rapace colomba, un agnello predatore, un cuore infido celato da un volto incantevole: tutti appellativi contraddittori che rivelavano la lotta interiore tra l’amore e il risentimento. Ma infine l’amore prevalse e le lacrime di dolore per la morte di Tibaldo si trasformarono in lacrime di gioia, perché suo marito era sopravvissuto al duello. Tuttavia seguirono altri pianti di dispiacere per l’esilio di Romeo. La parola stessa le sembrava più atroce della morte di cento cugini.