La parola “personaggio” deriva dal latino persona, termine con cui si indicava la maschera indossata dall’attore durante la recita. Questa maschera variava secondo i diversi caratteri che doveva rappresentare, e quindi, in senso traslato, il termine passò a significare ognuno dei protagonisti che agiscono all’interno di un testo narrativo. Di questo tipo di testo, il personaggio è una delle componenti essenziali. È difficile infatti immaginare una narrazione che ne sia priva: anche se ridotto a uno solo (per esempio nel monologo) e schematizzato al massimo, il personaggio costituisce un elemento fondamentale della struttura narrativa perché se è vero, come abbiamo già visto, che per avere una narrazione è essenziale la presenza di una trama, è anche vero che la trama si fonda sull’azione, e l’azione, a sua volta, può essere portata avanti solo da un personaggio. Data quindi la centralità del suo ruolo, il personaggio ha attirato fino dall’antichità l’attenzione degli studiosi e dei teorici della letteratura: ad esempio, il filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) dedica all’analisi della natura e del ruolo del personaggio un intero volume del suo trattato di arte letteraria, la Poetica. La critica moderna ha sviluppato l’analisi del personaggio lungo due direttrici fondamentali: una si occupa principalmente di ciò che il personaggio fa, e quindi del ruolo che esso assume all’interno della vicenda; l’altra, invece, lo studia dal punto di vista del carattere e dell’interiorità. Potremmo definire la prima linea di analisi come funzionalistica, la seconda come psicologica. Si tratta evidentemente di due ambiti di ricerca di pari rilevanza, anche se va detto che nel complesso la critica contemporanea riserva una maggiore attenzione al primo, quello cioè relativo all’analisi delle funzioni: ne riparleremo in una scheda successiva. Per il momento, soffermiamoci brevemente sull’analisi psicologica: fra i tanti approcci possibili in questo campo, uno dei più efficaci è quello proposto dallo scrittore e critico inglese E.M. Forster, che in un suo celebre saggio (Aspetti del romanzo, 1963) divide i personaggi in due categorie fondamentali, i Tipi e gli Individui. I primi presentano una personalità dominata da una sola caratteristica che si ripresenta puntualmente ogni volta che essi entrano in scena. La loro psicologia risulta quindi poco articolata e unidimensionale (ecco perché questi personaggi vengono anche definiti “piatti”). I personaggi