Lo sport è, sotto certi aspetti, la versione contemporanea di ciò che nell’antichità era il mito: non per nulla si parla di “imprese” sportive e di “eroi” dello sport. Il campione che conquista la vittoria mette in moto nel pubblico un meccanismo di identificazione che trasforma l’atleta in un eroe popolare, in un simbolo di riscatto e di rivincita sulle delusioni e le amarezza della realtà. Se poi a queste caratteristiche “genetiche” del gesto sportivo si aggiunge il bisogno di fantastico e di straordinario che, in un mondo razionalizzato e meccanizzato come il nostro, si avverte con sempre maggiore intensità, è facile comprendere perché gli eventi e i protagonisti dello sport offrano così copioso materiale al sorgere di una vera e propria “epica moderna”, i cui cantori sono i giornalisti sportivi che diventano, come gli antichi aedi, gli interpreti dell’immaginario collettivo. Come giudicare questa dimensione “epica” dello sport? Senza dubbio in modo positivo, perché essa permette di soddisfare quell’attitudine all’evasione nel fantastico che è una componente non eliminabile della natura umana e offre inoltre la possibilità, oggi sempre più rara, di riconoscersi in una memoria storica e in radici comuni: entrate in crisi le forme tradizionali di aggregazione, la leggenda sportiva è rimasta una delle ultime occasioni di manifestare una coscienza collettiva fondata su una condivisione di valori e su un comune sentimento della vita.