L’arbitro era di Lucca, cittadino di quella città. A quel tempo le squadre tra loro si sorteggiavano l’arbitro; si gettava in aria una moneta, che aveva indicato il lucchese. L’arbitro si comportava con giustizia, tentava che la partita non degenerasse. Dalla tribuna e dai popolari gli arrivavano gli insulti dei viareggini. Ancora una volta gli attacanti lucchesi ordirono un’azione. Il centrattacco passò la palla alla mezz’ala che corse diretta davanti a sé. La difesa dei Viareggio l’affrontò. La mezz’ala ripassò la palla al centrattacco, un passaggio perfetto, gli depositò la palla davanti ai piedi. Il centrattacco era libero, al limite dell’area di rigore, davanti il solo portiere. La difesa del Viareggio gli corse dietro; si accorse che solo sgambettandolo poteva impedirgli il tiro in porta. Il centrattacco rotolò per terra. L’arbitro era lì vicino, non poteva non avere visto. Decretò il calcio di punizione. Era la semplice giustizia. I viareggini urlarono al sopruso, alla frode, all’infamia. Infine era solo un calcio di punizione, non di rigore. La palla fu messa nel punto dove era avvenuto il fallo. L’arbitro contò i passi che dovevano essere lasciati liberi davanti a chi batteva la punizione; e si mise da una parte in procinto di fischiare. Le voci calarono d’improvviso e si estinsero, come fosse quistione di vita o morte. L’aria celeste, contornata dagli ombrelli dei pini, fu perforata dal fischio dell’arbitro. Il calciatore lucchese, che aveva fatto le mosse come stesse lui per calciare la punizione, si era già accordato con un suo compagno: “Io faccio finta, salto sopra il pallone, non lo tocco. Tu vienmi dietro e tira”. I viareggini con i loro corpi avevano fatto un muro. Appena l’arbitro fischiò, corsero verso la palla, e si scompaginarono, aprirono un varco. In quello il secondo giocatore lucchese diresse la mira. Il portiere viareggino non mosse neppure un braccio. La palla era già dentro. Un altro goal lucchese. La parità.