LEGGERE E CAPIRE IL CONTESTO Il fenomeno del “tifo” Da quando esistono le competizioni sportive, esiste anche un pubblico che si appassiona e parteggia per uno dei contendenti o per una delle squadre in lotta. È un fenomeno studiato dagli psicologi, che lo hanno spiegato con il concetto di “transfert”, cioè con un processo di identificazione dello spettatore che si immedesima nell’atleta e trasferisce nella competizione e nei suoi protagonisti emozioni, aspirazioni e ambizioni che vengono normalmente frustrate nella sua personale esperienza quotidiana. Così, per compensazione, le sconfitte e le delusioni ricevute nella realtà vengono risarcite simbolicamente dalla vittoria della “squadra del cuore” o del campione prediletto, su cui si indirizzano e si scaricano le tensioni accumulate durante la settimana. Considerato da questo punto di vista, il valore dello sport come ammortizzatore dell’insoddisfazione sociale è immenso, e lo hanno ben capito tutti quei gruppi di potere che incoraggiano e sostengono senza badare a spese il dilagare della passione sportiva per ottenere consenso e deviare su obiettivi politicamente innocui frustrazioni e disagi che potrebbero creare pericolose situazioni di protesta. Nel suo stato più acuto e più intenso, la passione sportiva prende il nome di “tifo”, e conduce a forme di partecipazione che spesso sono pittoresche e divertenti, ma che, soprattutto in questi ultimi anni, hanno dato luogo a preoccupanti manifestazioni di fanatismo, intolleranza e violenza. Sotto accusa è in particolare il tifo organizzato nell’ambito del calcio, che spesso degenera in forme di cieca intolleranza e di aggressività purtroppo alimentate da un’informazione giornalistica che non guarda troppo per il sottile pur di procurarsi attenzione e, di conseguenza, incrementare i propri profitti. Le dimensioni che ha assunto il fenomeno, che ha per protagonisti non più sparute minoranze ma consistenti masse di migliaia di persone, rendono molto problematico il suo controllo: i metodi repressivi sembrano non essere sufficienti, provocando spesso l’effetto di accrescere anziché ridurre il tasso di violenza intorno agli stadi; occorrerebbe un’azione di prevenzione e, soprattutto, di educazione affidata in primo luogo ai media che, però, pochi hanno la capacità e la volontà di svolgere. D’altra parte è anche vero che in una società come la nostra, intollerante e dominata da modelli di trasgressione violenta, è assurdo pretendere che un fenomeno di massa come lo sport, e in particolare il calcio, costituisca un’isola felice in cui non si verificano i processi degenerativi che colpiscono il resto del tessuto sociale. Che fare dunque? Nessuno ha, ovviamente, la soluzione pronta; quello che ci si può augurare è una crescita culturale e civile, soprattutto delle generazioni più giovani, insieme a un maggior senso di responsabilità da parte dei responsabili dell’informazione e, cosa che forse potrebbe risultare decisiva, da parte degli stessi protagonisti degli eventi sportivi, che dovrebbero per primi scendere in campo denunciando e condannando le degenerazioni del tifo violento.