Se dovessimo tracciare un identikit del personaggio pirandelliano, indicheremmo, di sicuro, il volto del modesto impiegato o del serio professionista, con tanto di famiglia a carico e tutta la sfilza dei doveri e degli obblighi che derivano dai suoi ruoli sociali e familiari. Obblighi a cui questo personaggio non adempie con animo sereno, come una conseguenza necessaria e naturale della vita, ma come un’autentica condanna a morte, una trappola soffocante che lo priva della libertà e della felicità. La vita vera non si trova lì, nei ruoli sociali e familiari, perché quei ruoli sono solo «forme» in cui la società imprigiona l’individuo costringendolo ad assumere comportamenti e a compiere azioni, nei quali egli in realtà non si riconosce. È naturale quindi che, per un individuo del genere, la vita sia un’impresa difficile e che egli nutra talvolta dentro di sé l’impulso di ribellarsi, strappandosi dal volto quella maschera che la società lo ha costretto a indossare. Ma, se da un lato il personaggio pirandelliano rifiuta le forme e i ruoli della vita associata, dall’altro non esiste per lui un’alternativa di vita praticabile. Al di là di quelle forme che egli non sente come sue, infatti, c’è solo il vuoto e il nulla.
Perciò, l’unica ribellione che questo personaggio può concedersi si limita a uno sfogo estemporaneo, a una piccola pazzia, come ne La carriola, alla fuga nel sogno, come nella novella Tu ridi, oppure, ancora, al rifiuto totale della vita, per rifugiarsi, come fa Valeriano Balicci nella novella Mondo di carta, nel mondo fittizio e illusorio dei libri, lontano dalla realtà.