Il protagonista della novella, soprannominato Pitagora perché, come il filosofo greco, non amava… i fagioli, rivede per caso dopo tanto tempo un amico di vecchia data, Tito Bindi, mentre, tutto radioso ed elegante, se ne va a passeggio lungo le vie di Roma con la bella fidanzatina e la madre di lei. I due si incontrano per qualche mese, quasi alla stessa ora – Pitagora da solo, il Bindi sempre in compagnia delle due donne –, e si scambiano sorrisi e saluti con la mano. Finché un bel giorno Quirino Renzi, cognato di Tito e amicissimo di Pitagora, non sopraggiunge all’improvviso a Roma, in compagnia niente meno che di… Tito Bindi. A questo punto, Pitagora capisce di esser caduto in un equivoco e che quell’uomo, che aveva salutato per tanti mesi, non era il vero Tito, ma un suo sosia. Il vero Tito, invece, non è per nulla felice: ha fatto un cattivo matrimonio, da cui sono nati due figli, di cui uno cieco. E adesso è venuto a Roma per curarsi da un grave esaurimento. Quando apprende che il suo sosia è fidanzato e sta per sposarsi, Tito si fa accompagnare da Pitagora nel luogo dove è solito incontrarlo e, con gesti e modi scomposti, cerca di convincerlo a evitare a tutti i costi un matrimonio che certamente gli avrebbe portato sfortuna, come a lui. Lì per lì il falso Bindi, il cui nome in realtà è Ermanno Lèvera, rimane sconcertato, davanti a quel pazzo che si dimena e gli grida cose assurde.
Poi, giorni dopo, Pitagora riceve un biglietto in cui il Lèvera gli comunica di aver troncato il fidanzamento, nel timore di ridursi prima o poi come il vero Tito, e di prepararsi a partire per l’America. La morale di questa novella è chiara: come tutte le «forme», anche il matrimonio è una trappola che, prima o poi, porta alla distruzione dell’uomo. La storia di Tito Bindi, ora ridotto a uno straccio a causa della sua vita familiare impossibile, è per il suo sosia un esempio negativo che lo convince a ritornare sui suoi passi e a dare una svolta radicale alla sua vita, rinunciando del tutto al matrimonio.