– Pitagora, hai ragione!
Mi spaventai; mi provai a sorridergli:
– Che vuoi dire, caro Tito?
– Dico che hai ragione! – ripeté egli senza lasciarmi, con un brio di luce terribile negli occhi sempre piú sbarrati25. – Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io. Proprio io, Pitagora; che non ho mai lasciato Roma! mai! mai! Chi dice il contrario, è mio nemico! Qua, qua, tu hai ragione, io sto qua, sempre, a Roma, giovane, libero, felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti.
Caro mio Pitagora, ah, respiro! respiro! Che peso m’hai levato dal petto26! Grazie, caro, grazie, grazie... Sono felice! felice!
E, rivolgendosi al cognato:
– Abbiamo fatto un brutto sogno, Quirino mio! Dammi, dammi un bacio! Sento il gallo cantare di nuovo nel mio vecchio studio di Roma27! Pitagora qui presente te lo dice. È vero, Pitagora? È vero? Ogni giorno tu m’incontri qua a Roma... E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino. Faccio il pittore! Il pittore! E vendo, no? Se mi vedi che rido, vuol dire che vendo! Ah... Va benone... Viva la gioventù! Scapolo, libero, felice...
25 con un brio… sbarrati: con un lampo di luce terribile negli occhi, sempre più spalancati. Lo sguardo di Tito Bindi, come quello di tutti i folli pirandelliani, è uno sguardo inquietante, che sembra penetrare al di là delle cose e delle persone, per vederle in modo diverso dal modo in cui le vedono gli altri. Come se il pazzo riuscisse a intuire, attraverso lo sguardo, ciò che di noi stessi ignoriamo o non vogliamo rivelare: i nostri pensieri, i desideri inconfessabili e tutto ciò che ognuno di noi racchiude dentro di sé, come un segreto da nascondere.
26 Quello che tu… dal petto!: il racconto di Pitagora produce sul folle una reazione singolare. Egli infatti arriva al punto di identificarsi con il suo sosia, e di rifiutare la sua presente condizione. Il vero Tito non è lui, perseguitato dalle sventure, afflitto da una moglie egoista e da una suocera bisbetica, ma quell’altro, che se ne va a spasso per le vie di Roma, sano, libero e felice. L’avventura paradossale di Pitagora gli ha ridato addirittura la speranza, illudendolo di non essersi mai allontanato da Roma e di non avere mai contratto quel matrimonio sciagurato, che è stato l’origine di tutte le sue disgrazie.
27 Abbiamo fatto… Roma!: la realtà presente – il matrimonio infelice, la cecità del figlio e tutta la catena delle sue disgrazie – è soltanto un incubo, un brutto sogno da dimenticare. Nella sua immaginazione sconvolta, Tito è rimasto quello che era prima di
partire per Forlì; la sua vita passata, a cui ripensa con desiderio e nostalgia, non è una parentesi conclusa definitivamente, ma, grazie all’esistenza del suo sosia, è rimasta una realtà ancora da vivere, una felicità che si può ancora realizzare.