Questa era dunque la situazione: la città era quasi vuota di abitanti e quei pochi rimasti vivi stavano tappati in casa, oppure giravano guardinghi per le vie, sfuggendo il contatto e anche solo gli sguardi dei loro simili. Quanto a me, l’unica consolazione che trovavo in tanta tristezza era di rifugiarmi nella chiesa di Santa Maria Novella per pregare, ascoltare messa o anche solo pensare ai fatti miei. Così, un martedì mattina (me lo ricordo ancora come se fosse ieri, anche se sono passati tanti anni) mi capitò di imbattermi in un gruppetto di ragazze. La messa era appena terminata, ma io non mi decidevo ad andarmene, perché ero attratto da quelle giovinette: erano così graziose e simpatiche, la più anziana forse non superava i ventott’anni e la più piccola doveva averne diciotto, su per giù. A giudicare dalla confidenza con cui si trattavano, sembravano legate da amicizia e da parentela. Inoltre, la gentilezza dei loro modi e gli abiti ricchi che indossavano, lasciavano intendere che erano ragazze benestanti e di buona famiglia. Non le chiamerò con i loro nomi veri, perché non vorrei che vi faceste delle cattive idee sul loro conto, visto che i costumi di oggi sono più puritani di quelli di una volta¹¹. Perciò, per distinguerle l’una dall’altra, userò degli pseudonimi: alla prima, che era anche la più anziana del gruppo, darò il nome di Pampinea, alla seconda il nome di Fiammetta, la terza la chiamerò Filomena, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile e infine, alla settima, darò il bel nome di Elissa. Guardando bene, mi accorsi che quelle ragazze parlavano animatamente fra di loro. E così io, che sono curioso per natura, cercai di avvicinarmi un po’ di più al bel gruppetto, per ascoltare meglio i loro discorsi.
«Amiche mie», diceva Pampinea, «la vita è il nostro bene più grande, e perciò è naturale che ciascuno cerchi, come può, di difenderla e conservarla. Vivere e viver bene non è solo un diritto, ma è anche un dovere. E invece noi cosa facciamo? Passiamo il tempo tra messe e funerali. Ascoltiamo in chiesa il triste elenco dei morti, quasi dovessimo tenere il conto dei disgraziati che, giorno e notte, se ne vanno all’altro mondo. E se usciamo di qui, cosa vediamo? Cadaveri abbandonati per le vie; becchini che vanno avanti e indietro col loro carico di bare, moribondi che gemono, malati che si lamentano. Che tristezza! E in casa? Non ci è rimasto più nessuno: solo il ricordo triste dei nostri cari e qualche vecchia serva rimbambita. Perciò, mi domando, cosa aspettiamo a lasciare la città e ad andarcene nel contado? Tanto più che ciascuna di noi possiede ville e poderi, in campagna. Secondo voi è meglio passare il tempo all’aria aperta, in mezzo alla natura, e divertirci onestamente¹², oppure restare qui in città a morire di tristezza e di noia?». Un mormorio di approvazione si levò dal gruppetto. «Le tue sono parole sante, Pampinea», osservò Filomena, che era molto saggia e prudente, «ma me lo spieghi come potremmo cavarcela, da sole, noi che siamo povere donne, senza neanche un uomo che ci difenda?».
11 Non… volta: il narratore preferisce nascondere la vera identità delle fanciulle che comporranno la lieta brigata del Decameron, e ricorre a pseudonimi, cioè a nomi fittizi, nel timore di danneggiare la loro reputazione (le sette ragazze infatti trascorreranno ben dieci giorni in lieta compagnia insieme a tre giovani), visto che la morale del giorno d’oggi, osserva Boccaccio-Filostrato, è molto più austera e rigida (puritana) di quanto non fosse ai tempi della sua giovinezza.
12 divertirci onestamente: cioè senza far nulla di male, senza offendere la morale.