Così Lisabetta, scoraggiata da queste risposte brusche, se ne stava tutta triste e silenziosa, piena di brutti presentimenti. Una notte, dopo aver pianto molto come al solito e invocato a lungo il nome del suo Lorenzo, si addormentò e in sogno le apparve proprio lui, Lorenzo in persona, bello com’era da vivo, ma con un’espressione mesta e addolorata: «Amore mio», le disse, «tu non fai che rattristarti della mia assenza e aspettare con ansia il mio ritorno. Ma, sappilo, mia cara, io non ritornerò mai più, perché i tuoi fratelli mi hanno ucciso». E, così dicendo, le indicò il posto preciso dove i fratelli lo avevano sepolto e la pregò di non chiamarlo e di non aspettarlo più. Venuto il giorno, Lisabetta si destò:
«Ah, Lorenzo mio, dunque ti hanno ammazzato!», mormorò fra le lacrime. Poi, di nascosto, prese con sé una serva fidata e se ne andò con lei nel luogo che il giovane le aveva mostrato in sogno.
Appena giunta, vide un piccolo tumulo di terra, coperto di foglie secche e sterpaglie. Senza pensarci su, quasi spinta da una forza irresistibile, si inginocchiò davanti a quel tumulo e cominciò a scavare, come una forsennata, a mani nude.
A poco a poco, riemerse un braccio, la testa, poi un altro braccio, quindi il corpo intero del ragazzo, che, quasi per miracolo, era rimasto intatto e ancora bellissimo, come da vivo. Lisabetta lo stringeva a sé, con il cuore straziato, lo cullava, come fosse un bambino, e intanto piangeva da far pietà. Ma non c’era più tempo per le lacrime e la serva, che se ne stava in un angolo, commossa, a guardare la scena, la richiamò avvertendola con garbo che bisognava sbrigarsi, perché i suoi fratelli potevano tornare a casa da un momento all’altro e, non vedendola, si sarebbero allarmati.
«Giusto!», esclamò la fanciulla riscuotendosi, e allora, visto che non poteva portare con sé il corpo e dargli una sepoltura più decente, come avrebbe voluto, ebbe un’idea, prese un coltello e gli staccò la testa dal collo, la avvolse in un lenzuolo e la depose in una sacca. Dopo di che, tornata a casa, si chiuse a chiave nella sua stanza e, dopo aver lavato con le sue lacrime la testa dell’amato, dandole mille baci, la fasciò accuratamente con un panno, la nascose in un bel vaso grande, di quelli che si usano per piantarvi il basilico e la maggiorana, e poi, riempitolo di terra, vi seminò molte piantine di basilico e lo innaffiò abbondantemente con acqua di rose e di fiori d’arancio. Tutti i giorni la povera ragazza lo innaffiava con quest’acqua pregiata e con quella delle sue lacrime, che scendevano copiose1 dai begli occhi sciupati.

1 copiose: abbondanti.