Peter Weiss Canto della Possibilità di soPravvivere A distanza di quasi vent anni dalla fine della guerra (1963-1965), si tenne a Francoforte sul Meno un processo a carico di un gruppo di SS e di alcuni funzionari che avevano operato nel Lager di Auschwitz. Davanti al giudice sfilarono diciotto imputati, contro i quali furono chiamati a deporre nove testimoni dei loro crimini. Il canovaccio su cui si svolse il processo fu in pratica sempre il medesimo: alle domande pressanti dei giudici e alle accuse dei testimoni, gli imputati risposero negando ogni responsabilità personale. Essi vollero apparire semplici esecutori di ordini che venivano dall alto, ma continuamente nelle loro parole emergevano il cinismo, il disprezzo e l insensibilità che li avevano trasformati in mostri. Peter Weiss assistette a quasi tutte le sedute, ricavandone il materiale da cui è tratto il brano qui riportato. Per quest opera l autore scelse la forma teatrale e utilizzò versi liberi, cioè di varia lunghezza, spesso brevissimi. Un altra caratteristica formale piuttosto insolita è la rinuncia alla punteggiatura, le cui pause sono qui suggerite dagli a capo dei versi. Figlio di un commerciante ebreo di nazionalità tedesca, Peter Weiss (Nowawes, 1916 - Stoccolma, 1982) seguì la famiglia allorché questa, in seguito alle leggi antisemite emanate dai nazisti, emigrò successivamente in Inghilterra, a Praga e in Svizzera, per stabilirsi definitivamente a Stoccolma, in Svezia. Iniziò la sua carriera artistica come pittore, ma presto si dedicò interamente alla letteratura, che gli diede una notevole fama grazie ad alcune opere autobiografiche (Congedo dai genitori, 1961; Punto di fuga, 1962) e soprattutto a lavori teatrali (La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, 1964; L istruttoria, 1965; Cantata del fantoccio lusitano, 1967; Discorso sugli antefatti e sullo svolgimento della lunga guerra di liberazione in Vietnam, 1968). Tutte le sue opere sono pervase da un forte impegno politico e morale. Da: Peter Weiss, L istruttoria, Torino, Einaudi, 1966, traduzione di Giorgio Zampa. 229