Però questi genovesi sono strani: ogni tanto, l’uscio ferrato si spalanca, entra un personaggio che, da come è vestito e dal piglio che mostra, si capisce che è autorevole, guarda i prigionieri accovacciati in terra, domanda loro se hanno bisogno di qualcosa in particolare. Chissà, forse questo accade quando, là fuori, senza che i detenuti lo sappiano, si sta discutendo di pace e s’incomincia a pensare di scambiarsi i prigionieri… Questi, di solito, ne approfittano per chiedere cibo e coperte, ma a volte fanno anche richieste curiose. Per esempio, c’è da un po’ di tempo nella cella un toscano che, a una simile domanda, risponde con belle maniere:
«Non ci sarebbe qualcosa da leggere?»
Da leggere? Il visitatore fa persino un mezzo passo indietro, come se si trovasse davanti a un animale pericoloso. I due uomini armati che lo scortano gli si avvicinano, come per proteggerlo da una minaccia. Lui fa cenno all’uomo di alzarsi in piedi e quello si leva,accenna a un inchino,piegando un poco la fronte.
Il personaggio gli domanda:
«Vorreste dirmi che sapete leggere?»
L’altro si passa la mano sulla bocca, come per nascondere un sorriso; poi accenna di sì con il capo:
«Sì, illustrissimo, me la cavo piuttosto bene…»
«Che mestiere fate? Cioè, volevo dire: che mestiere facevate?»
Di nuovo, l’uomo, dall’accento toscano inconfondibile, si passa la mano sulla bocca; poi china di nuovo la fronte, rispondendo:
«Illustrissimo, facevo lo scrittore».
«E in che lingua scrivete…, scrivevate?»
«In francese, illustrissimo».
«Voi, che siete toscano, scrivevate in francese?»
L’altro si passa per la terza volta la mano sulla bocca:
«In quel Paese si ha più considerazione per gli scrittori, piuttosto che da questa parte delle Alpi. Voi capite, se c’è da guadagnarsi da vivere, bisogna tener conto di ciò che rende di più…»
È evidente che il visitatore sta prendendo gusto alla conversazione:
«E come vi chiamate?»